JONATHAN DARCY
TORNA A CASA
Jonathan Darcy fece scivolare le
ruote della Streetfighter lungo il selciato e si fermò
accanto ad un piccolo sentiero che si inerpicava
dolcemente tra le onde verdi del terreno, disseminate da
piccoli cespugli quasi geometrici. Alzò gli occhi e si
tolse il casco. Scosse il capo, più per scacciare
inquieti pensieri che per sistemarsi i corti capelli
scuri, comunque ribelli.
Smontò dalla moto e posò il casco
sulla sella. L’aria era esattamente come la ricordava,
come l’aveva bramata senza soluzione di continuità nelle
ultime tre settimane. Respirò a pieni polmoni l’odore
della sua casa, della sua terra.
Tutto sembrava essersi colorato
con sfumature più forti, più vive, come se
improvvisamente il mondo avesse ricominciato a girare
per il verso giusto e si fosse vestito a festa per
quell’improvviso dono.
Una leggera folata di vento agitò
le fronde degli alberi, in cui il verde aveva lasciato
il passo alle prime venature giallo dorate. Jonathan
sorrise per il brivido freddo che gli attraversò la
schiena così in contrasto con il caldo afoso che lo
aveva attanagliato ultimamente. Era tutto esattamente
come aveva sperato che fosse, come aveva sognato
che fosse.
Imboccò il sentiero che saliva
per il declivio. Della moto si sarebbe occupato Mike.
Ora voleva solo immergersi in quella natura che gli era
mancata terribilmente. ‘Troppo terribilmente’ avrebbe
puntualizzato Gem, se lo avesse saputo. Ma lui non
glielo avrebbe detto. Non per il momento, almeno. Ora
voleva solo lasciarsi alle spalle tutto quello che i
suoi occhi avevano visto, dimenticare il deserto della
Mauritania, quegli inganni e soprattutto quella
telefonata. Almeno per qualche giorno quello doveva
essere il ritmo a cui doveva andare la sua vita.
Nonostante tutto.
Man mano che si avvicinava alla
casa, gli alberi diventavano più radi, il prato più
rigoglioso e compatto, come solo in Inghilterra poteva
essere. E lui poteva ben dirlo; aveva visto mezzo mondo
e nulla le era anche solo paragonabile.
Prese da terra un ramo secco. Si
divertì a pulirlo per poi fendere l’aria, come se quel
rumore rapido e preciso gli confermasse che si trovava
veramente lì, a due passi dal Laghetto delle Trote, alle
spalle della casa dove aveva vissuto praticamente tutta
la sua vita. O per meglio dire, tutta la vita che
preferiva ricordare.
Chiuse per un attimo gli occhi e
con la mente tornò a ventinove anni prima, quando, nel
giorno del suo sesto compleanno, suo padre gli aveva
insegnato, davanti ad un trepidante George, suo fratello
minore, come manovrare una barca a remi ed attraversare
il Lago per raggiungere lo Scoglio, una sorta di
isoletta che sorgeva sulla sinistra e dove crescevano
quattro rowan trees, incuranti del vento e delle
intemperie, che attorcigliavano i loro rami come se così
fosse per loro più facile costruire una scala invisibile
verso il cielo.
Non che lo Scoglio fosse di una
bellezza particolare, ma raggiungerlo per la prima volta
gli aveva regalato una certa soddisfazione personale,
ancor di più perché quella notte aveva potuto raccontare
di chissà quali misteri i suoi occhi erano stati
testimoni ad un George terrificato ed affascinato al
tempo stesso, desideroso di emularlo ed intimorito di
affrontare quei pericoli a suo avviso assolutamente
insormontabili.
Perché in fondo era sempre stato
così.
George era sempre stato il più
ponderato tra i due, più tradizionalista. Aveva studiato
ad Oxford, ottenendo il massimo dei voti. Aveva
intrapreso da subito la carriera politica, seguendo le
orme del padre e di chi era venuto prima di lui. Aveva
corteggiato la ragazza giusta, con cui si era a tempo
debito sposato ed aveva già dato alla luce l’erede,
regalando tranquillità all’animo sempre in ansia della
madre. Si vestiva da Turnbull & Asser, come loro padre
prima di lui, come nonno Darcy e come il Principe Carlo
e i suoi figli William e Harry.
Lui invece aveva seguito una via
alternativa per servire il suo Paese. Non che fosse meno
valida. Non che non avesse ricevuto il consenso del
padre. Al contrario. Ma era sicuramente una via che fino
a quel momento nessuno nella sua pluricentenaria
famiglia aveva intrapreso. O almeno, gli archivi di casa
Darcy non lo ricordavano. Lì si annoveravano politici,
militari, notai, medici. Vi era anche un pilota (il
prozio Gregory) ed un paio di gioiellieri (i gemelli
Lewis e Sam, che avevano ornato le dita e i capelli
delle dame più altolocate d’Inghilterra tra la Prima e
la Seconda Guerra Mondiale). Ma, per quanto si
sfogliasse, per quanto si cercasse tra le pecore nere o
tra i più arditi e volenterosi, tra chi era morto
giovane lasciando il titolo ad un fratello minore, tra
chi aveva combattuto nelle Indie, tra chi aveva ricevuto
chissà da dove un’immensa fortuna per ristrutturare il
maniero o tra chi aveva sanato i debiti di qualche
cugino troppo facile a prestare il fianco al gioco
d’azzardo ai tempi della Regina Vittoria, mai si trovava
uno come lui. Certo, vi era stato Alasdair Darcy,
fratello minore del suo bis-bis-bis nonno, che nel 1791
era stato inviato in Austria come ambasciatore per
parlare con l’imperatore Leopoldo II e nel 1795, dopo la
morte di Luigi XVII di Francia (il re bambino figlio di
Luigi XVI e Maria Antonietta, che mai era salito al
trono), aveva incontrato il Conte di Provenza, Luigi
XVIII, e l’esercito realista della Vandea per
organizzare lo sbarco a Quiberon, dove aveva trovato la
morte. Di lui si parlava poco, come se le sue gesta
dovessero rimanere oscurate dalle ombre del tempo così
come lo erano state in vita. A casa del bis-bis-bis
nonno non doveva essere quasi nominato, affinché la
gente si dimenticasse addirittura dell’esistenza del
fratello, o almeno questo era quello che una volta si
era lasciata sfuggire la cugina Abigail in una lettera
datata 18 dicembre 1797.
Ma per quanto Alasdair Darcy avesse preso parte ai
giochi politici del suo Paese, portando ambasciate e
mediando incontri cruciali per la storia dell’Europa del
suo tempo, non lo si sarebbe mai potuto paragonare a
lui. No. Non lo si sarebbe mai potuto definire un agente
segreto.
(segue...)
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