IO AMO DUBLINO, IO
ODIO DUBLINO
Fiumicino, aeroporto Leonardo da Vinci
Novembre 20..
15,40, ora italiana
pochi giorni prima de ‘Il complotto di Roma’
“Allora,
hai capito? Andrà tutto benissimo”, Agla strofinava le
mani sulle mie braccia.
“Non devi
preoccuparti di niente”, le faceva eco Rebecca.
“Di
niente”, risi.
“Esatto”,
Agla mi abbracciò improvvisa. “Di niente, stella mia”.
Ricambiai
l’abbraccio cercando di nascondere la tensione, e al
tempo stesso sicura che avessero ragione.
“Mi
raccomando, chiamaci appena arrivi”, fece Rebecca.
“Certo”,
annuii.
“Ed ora va.
La fila è lunghissima”, Agla mi spinse via un po’ di
malavoglia.
Alzai
allegramente gli occhi al cielo. Odiavo la trafila della
sicurezza agli aeroporti.
“Non vorrai
perdere l’aereo per stare qui a parlare con noi!”,
scherzò Rebecca.
“No”, mossi
appena la testa e rimisi lo zaino su una spalla. “No”.
“Brava”,
sorrise Rebecca.
“Grazie!”,
mi voltai per un attimo verso la fila. “Eh già… Devo
proprio andare. Grazie per avermi accompagnata. Non
dovevate”.
“Ma va là!
Non dovevamo!”, Agla mosse i ciuffi. “Ma se è tutto
merito mio se parti”, si mise teatralmente una mano sul
petto. “Ti prego di ricordartelo”, ammiccò.
“Me lo
ricorderò”.
“Buon
viaggio”, Rebecca mi diede un rapido bacio sulla
guancia.
“Riprenditelo, Lisi. Riprenditelo”, disse Agla. Ora
seria. Serissima.
Mi
rinfilavo le scarpe.
Me le
avevano fatte togliere alla sicurezza per passarle al
metaldetector. Assieme allo zaino.
Avrei
voluto vedere la faccia degli addetti che avevano
analizzato il mio bagaglio.
La cosa più
normale era La felce sul lago de L’Esule di
Rolan.
Molto meno
il cardo essiccato usato come segnalibro.
Il pigiama
con le pecore.
O la foto
di Scott Brown portata per autocaricarmi.
“Riprenditelo, Lisi. Riprenditelo”.
Le parole
di Agla mi risuonavano nella testa. E mi convincevo che
aveva ragione. Che sarei riuscita nel mio intento.
Cielo, sì,
ci sarei riuscita.
Non fossi
stata convinta di questo non avrei mai accettato di fare
quel viaggio assurdo, inaspettato, folle.
Lo avrei
raggiunto. Lo avrei guardato negli occhi. Gli avrei
detto che non mi importava di Karim. Non mi importava di
quella maledetta foto. Non mi importava niente. Io non
ce la facevo più di quel silenzio, di quel distacco, di
quell’assenza.
Di
quell’anno senza di lui.
Ed avrebbe
capito.
Sì, avrebbe
capito.
Mi rimisi
lo zaino in spalla.
Amavo
Dublino. L’amavo.
Nulla mi
poteva essere tolto in quel momento. Nulla.
Ero forte.
Sicura. Imbattibile.
Camminai
tra i negozi duty free. I passi leggeri, veloci. Odore
di mille profumi e di caramelle gommose. Un rumore
elettrico e l’ultima chiamata per un volo per Bombay.
Rigiravo
nelle tasche le monete che avevo fatto passare al
metaldetector.
Sorridevo
ad ogni viso che incontravo.
Ad ogni
spalla a cui sbattevo.
Non avrei
mai immaginato di trovare il coraggio. Era da agosto che
ci pensavo. Ogni giorno. Ogni singolo giorno. Ed ora
che, per dirla come Giulio Cesare, il dado era stato
tratto, mi sentivo felice.
Pronta a
tutto.
“Riprenditelo, Lisi. Riprenditelo”.
Non
riuscivo a crederci. Lo avrei rivisto.
Feci un
mezzo giro e mi lasciai cadere su un sedile duro e
metallico, ma che a me parve il più comodo del mondo.
“Mi manchi da morire Kieran Moynihan”, dissi in un
sussurro. E chiusi gli occhi abbracciandomi allo zaino.
(segue...)
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