IL RITORNO DI MARY
CRAWFORD
Derbyshire, Inghilterra
Aprile 20..
Sette mesi prima del Settimo Incarico
Penelope Hughes era in piedi sul
balcone della stanza che Lord e Lady Darcy le avevano
assegnato. Si affacciava sul retro della loro storica
villa nel Derbyshire. Villa che lei già conosceva. Che
aveva visitato cinque mesi prima. Che aveva odiato
cinque mesi prima.
La vista abbracciava i Monti
Pennini, i boschi, i ruscelletti che gorgogliavano
nascosti. In una bella giornata sarebbe stato possibile
scorgere anche qualche traccia dello Specchio dei
Fairley. Ma non in quell’occasione. La nebbia si alzava
all’orizzonte in quell’alba appena nascente. Il vento
soffiava gelato, la gonna le si intrecciava alle gambe.
Si sfiorò il collo freddo. Il suo corpo non si era
ancora abituato al nuovo taglio di capelli. Niente più
treccia, niente più riflessi ramati, niente più nulla.
Una punizione, forse. O la
decisione di voltare pagina. Anche se quella in realtà
lei non l’aveva affatto presa.
Strinse le mani sul parapetto dal
marmo poroso. I suoi occhi si concentravano unicamente
sul Laghetto delle Trote. Sullo Scoglio. Su quei dannati
rowan trees. Quegli alberi che Jonathan amava
così tanto. Che aveva promesso di mostrarle da vicino
una volta arrivati in quella casa. Ma che lei aveva
sempre rifiutato anche solo di sfiorare con lo sguardo.
Fino a quel momento almeno.
Odiava quegli alberi. Odiava il
loro significato. Odiava tutto quello che avevano
comportato.
Abbassò il volto.
Come era possibile che si
trovasse lì? Come aveva fatto ad accettare quella
situazione? Come aveva potuto dire… sì?
Chiuse gli occhi e respirò
profondamente.
Si sfilò l’anello.
Non poteva più portarlo.
Aveva sbagliato.
Aveva profondamente sbagliato.
Ma a dire la verità lei non aveva
mai realmente accettato. Era stato Jonathan. Aveva fatto
tutto lui. E Patrick. Come aveva potuto Paddy? Come
aveva potuto? Eppure lei era stata chiara al riguardo.
Non voleva vederlo. Non voleva più parlare con lui o di
lui. Non le interessava che avesse lasciato il suo
incarico presso i servizi segreti di Sua Maestà. Non le
interessava che avesse rinunciato al titolo di Lord. Non
le interessava niente di niente.
Voleva solo che uscisse dalla sua
vita.
I loro mondi erano incompatibili.
Loro erano incompatibili.
Tornò con la mente a quel giorno
ad un passo dal cambio dell’anno. Al suo ritorno
inatteso. A quell’abbraccio violento e rubato. Così
diverso eppure così uguale a quello che era accaduto
tanti anni prima nella sua casa a Belfast mentre
attendeva il ritorno di Gerry dalla sua lezione di
nuoto.
Forse non aveva manganelli. Forse
non le spingeva il viso contro il muro. Forse non le
strappava sangue dalla bocca.
Eppure anche lui aveva imposto la
sua forza.
Per colpa di quegli alberi.
Di quei rowan trees.
Riaprì gli occhi e li fissò
nuovamente. Il vento agitava appena i rami intrecciati
ed increspava il lago con piccole, costanti onde. Un
uccello si alzò in volo e si posò poco lontano,
guardandosi intorno vinto da un’imperturbabile stupore.
Quegli alberi. La passione di
Jonathan. L’ossessione di Jonathan.
Aveva sempre amato dipingerli.
Immergere il suo pennello in mille, nuovi, inconsueti
colori. Ed aveva trasportato quegli alberi in luoghi
lontani ed immaginari. Spiagge esotiche, boschi di
montagna, parchi di cemento, temporali nel vuoto
immenso. Eppure… eppure.
Scosse la testa. Non era
possibile. Non aveva senso. Jonathan aveva mentito. O si
era sbagliato. Non poteva essere altrimenti.
Come poteva lei, l’antitesi di
tutto il mondo e il credo di quella famiglia inglese,
essere stata il richiamo a ritrarre quei rowan trees
lì, a casa sua, nel Derbyshire? Era evidentemente un
altro il motivo e Jonathan non lo aveva capito.
I giorni che avevano anticipato
l’attentato alla Giant’s Causeway erano stati pieni di
tensione e Jonathan si era assunto responsabilità che
andavano oltre al suo ruolo di Fitz, l’agente segreto
che avrebbe dovuto arrestare Cuchullin e tutti loro. Li
aveva protetti, questo glielo concedeva. Ma, in fondo,
aveva avuto ragione.
Loro non li stavano tradendo. E
Cuchullin aveva detto il vero.
Quella sua decisione gli aveva
procurato un’udienza privata con la Regina. Un
ringraziamento che non poteva essere pubblico ma che
Jonathan Darcy si sarebbe portato dentro per tutta la
vita.
Sì. Doveva essere stato questo.
Certo. Era ovvio.
Doveva essere stata la
consapevolezza di aver compiuto il proprio dovere. Di
stare salvando il proprio futuro Re ad avergli disteso
l’anima e avergli fatto nascere dentro la voglia di
tornare ad un ritmo di vita più tranquillo, dove mettere
radici.
Non era stato di certo il suo gettare sassi nelle acque
del Laghetto delle Trote. Come sarebbe mai potuto essere
possibile? Era di fuoco lei, in quel momento.
(segue...)
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